Il venerabile Pietro Santucci da Manfredonia, un grande esorcista del XVII secolo – di Giacomo Telera

 “Il Cenobio della Maiella […] mentre deplorava la propria caduta, il Cielo facea nascere nelle Sipontine contrade un genio pietoso ed ardito, che non solo dovea rilevarlo da tale stato ma tornarlo anche più splendido di quello che fosse stato per lo innanzi. PIETRO SANTUCCI ebbe nome quest’esse predestinato”: così Vincenzo Zecca celebrava l’abate Santucci, dell’ordine dei Celestini, per l’opera di ricostruzione del monastero di S. Spirito della Maiella, fatto erigere tre secoli prima da Pietro del Morrone (papa Celestino V). E ancora: “PIETRO SANTUCCI da Manfredonia, caro alla Cristianità innanzi a cui risplendé di eminenti virtù; più caro a questa Badia, della quale fu secondo fondatore col rialzarla dalle fondamenta.

 

Immagine 1: Antiporta del libro “Historie Sagre degli uomini illustri”

 

Questo nome in mezzo a quelle rovine ci riconcentra a religiose meditazioni, e ci fa sperare di vedere in altri redivivo il SANTUCCI per la redenzione dell’eccelso Santuario!”. Un esaustivo profilo biografico lo si rileva da Celestino Telera, abate del medesimo ordine del Santucci, nonché suo concittadino e amico, nell’opera più famosa, Historie Sagre degli huomini illustri per santità della Congregatione de Celestini dell’Ordine di S. Benedetto. Pietro Santucci nacque il 20 agosto 1562 a Manfredonia, da Giovanni Tommaso di Benevento e Porzia Saraceni nativa della città del golfo, ma originaria di Lecce. I Santucci appartenevano alle famiglie nobili di Benevento. Nella famiglia Saraceni, nel 1551, spiccava la personalità del cardinale Giovanni Michele Saraceni, arcivescovo di Matera, il quale ebbe parenti a Napoli, Lecce e Manfredonia. Pietro era il terzo di sei figli e il suo nome di battesimo era Giuseppe, nome che cambiò quando si fece monaco. 

Il ragazzo si trovò ad essere testimone quando sua madre, mentre pregava davanti a un Ecce homo, vide dal dipinto provenire “un gran splendore, che gli offese alquanto la vista”; notò che l’effigie si era mossa, facendo tremare la cornice, conseguenza della “fervente oratione di lei”. In un’altra occasione la donna era andata a pregare nella cappella del Crocifisso, sita nella chiesa di S. Francesco. Fu vista una colomba che, dapprima, si fermò sulla cancellata dell’altare e successivamente sul capo di lei, intimorendola. Ma poi la donna si rasserenò al pensiero che quello potesse essere un messaggio celeste, e “si accese a divotione”. Ben presto si ammalò, e morì quando il Sipontino aveva solo 11 anni. Anche il padre del Santucci era un timorato di Dio e morì qualche anno prima della moglie. 

Quel Crocifisso era molto venerato dalla signora Porzia, dai fedeli di Manfredonia e della Capitanata, poiché dal suo costato era uscito sangue miracoloso. Era accaduto a seguito di un giuramento fatto da due giovani dinanzi ad Esso: di portare solo spade per il loro duello. Era stato in quel momento che dal Cristo in Croce si erano staccati i chiodi delle mani e dei piedi ed era fuoriuscito sangue dal costato. La fama di tale straordinario evento si era propagata velocemente nella città e nei dintorni. 

 

Immagine 2: Il crocifisso miracoloso della chiesa di San Francesco

 

Fin da piccolo, Pietro aveva frequentato le chiese, in particolare quella dei Celestini, e quando sua madre fu sul punto di trapassare, permise solo al priore del locale monastero dei Celestini di poter raccomandare l’anima della donna a Dio. Dopo la morte dei genitori fece istanza ai superiori dell’ordine celestino di vestirne l’abito, concessogli, nel 1573, nel monastero di San Benedetto di Monte S. Angelo. Fu inviato dal padre generale Vincenzo del Vasto a fare l’anno di “probatione” nel monastero della SS. Trinità di San Severo, dove fece i voti solenni, rimanendovi per qualche tempo. Successivamente, fu trasferito in Collemaggio, a L’Aquila, dove svolse l’incarico di sacrestano. 

 

Immagine 3: Papa Sisto V

 

Il padre generale D. Pietro Capocitto, intenzionato a farlo ascendere ai più alti onori dell’ordine, lo chiamò a Roma. Ma il Santucci non aspirava alla vita cenobitica, bensì a quella eremitica. Per questo motivo chiese al Generale di poter essere destinato presso l’eremo della Maiella, purtroppo abbandonato, profanato e abitato da pastori, dove l’anacoreta Pietro del Morrone, poi papa e santo, aveva compiuto numerosi miracoli. A causa della sua giovane età e delle condizioni in cui versava il romitorio, fu respinta la richiesta. Senza demordere, chiese udienza al pontefice Sisto V, per mezzo di monsignor Bellocchio, ottenendola per due volte. Il Papa gli chiese se la chiamata fosse opera di Dio e se in cuor suo sentiva di poter resistere a certi patimenti, ma continuò concludendo che non poteva sostituirsi all’autorità del Generale. Così, il Santucci chiese udienza al cardinale Innico d’Avalos d’Aragona, protettore dell’ordine, affinché fosse accontentato. Questi mostrò inizialmente resistenza ponendo al Sipontino la seguente domanda: «Siete voi questi, che dopo aver fatto voto d’ubbidienza cercate esimervi da quelle, con vivere à vostro modo nei monti?»; alla quale Santucci rispose che “siccome hò fatto il voto, così spero morire: io non bramo uscire…”. 

Il cardinale protettore fece intendere al nuovo generale, Maurizio di Bergamo, di poter concedere licenza al giovane monaco, cosa che avvenne nel monastero di S. Pietro a Maiella di Napoli, il 15 marzo 1586. Proprio nella licenza appare, per la prima volta, il nome di Pietro, a devozione di S. Pietro Celestino. Una volta raggiunto quell’aspro luogo, il monaco rese grazie a Dio, pregandolo di riceverlo nella sua divina protezione. 

Gli inizi non furono semplici. In solitudine iniziò a liberare quel luogo sacro dai pastori; si nutriva di erbe e di acqua delle fonti, presenti lì vicino; dormiva sulla nuda terra o su delle tavole; ma il maggior tempo lo passava pregando. 

Nel 1589 si presentarono due eremiti e tra questi un certo Francesco di Lecce. Il Santucci li accolse, perché aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse a servire messa. Dopo pochi mesi decise che non era più necessaria la loro compagnia, causando l’ira del leccese, il quale prima tentò il suicidio e, successivamente, decise di colpire con archibugiate il padre sipontino appena fosse ritornato da Caramanico. Si inceppò qualcosa nell’arma che non permise all’attentatore di portare a compimento l’atto infame. Dopo qualche giorno il salentino morì a Caramanico e l’altro falso eremita si recò dal Celestino a informarlo del fatto e del tentato omicidio ai suoi danni. Così il Nostro ringraziò Iddio di averlo salvato. 

Nel tempo, si recarono in quel luogo sacro altri giovani provenienti da Roccamorice, i quali, desiderosi di servire Dio, ottennero l’abito di converso dal Santucci. 

Una grave carestia di grano colpì quella zona dell’Abruzzo, ma ai bisogni dei religiosi provvide il dottor Giuseppe de Stefanis di Caramanico. 

L’eremita celestino era solito camminare, anche tra le nevi, con scarpe rotte; spesso perdeva sangue dalle gambe e si medicava con semplice olio; non mangiava mai carne, ma solo erbe bollite, senza pane, non beveva vino ma solo acqua. D’inverno, a causa delle fonti ghiacciate si dissetava con acqua ottenuta dalla neve, liquefatta nella pentola e messa sul fuoco. Predicava tra i monti e i lunghi deserti dove dimoravano i pastori, esortandoli a confessioni e penitenze. Girò quelle terre in lungo e largo. La sua fama crebbe. Il peregrinare e le fatiche delle penitenze debilitarono il Nostro che, dato per moribondo, fu portato in Roccamorice in casa di un suo amico, dove addirittura gli si diede l’estrema unzione. Ma pregando l’immagine di Cristo “Ecce homo”, chiese al Signore di riavere la salute per portare a termine la riedificazione del monastero. Subito dopo il Santucci rinsavì. Era alto, robusto e di bell’aspetto, nonché caritatevole, secondo la descrizione data dal Telera. Studiava le dottrine teologiche dei Santi Padri (in particolare di S. Bonaventura), le opere di S. Vincenzo Ferreri, e i suoi ragionamenti “movevano ad atti di pietà qualunque persona”. Era dedito al disegno e alla scultura (infatti adornò la chiesa con statue di stucco fatte da lui); si dilettava nel suonare i cembali, gli organi e nel canto. Si appassionò all’architettura, rendendo sicuro il monastero da piogge rovinose e dalle nevi, creando per l’inverno dei raccoglitori d’acqua per gli usi del cenobio. Agli ornamenti fatti dal Padre in S. Spirito a Maiella fa accenno il Pacichelli, nelle sue Memorie, ricordando il Santucci “morto con opinione lodevole”. Fornì il monastero di tutte le cose necessarie. Collocò un crocifisso, a grandezza naturale, nella sua cella, quella che fu di S. Pietro Celestino, dove si operarono molte grazie e liberazioni di posseduti. 

 

Immagine 4: Filippo I Colonna

 

Tutto procedeva per il meglio, ma mancava qualche reliquia di un Santo. Nella chiesa di S. Stefano di Vallebona, abbandonata e senza tetto, si conservava il corpo di S. Stefano detto del Lupo, perciò il Padre tentò di prenderlo, ma ebbe la resistenza della città di Manoppello; pertanto, trattò con D. Filippo Colonna, Connestabile del Regno, il quale diede il consenso per prendere le reliquie e portarle, insieme ai suoi confratelli, a S. Spirito a Maiella. Durante il ritorno persero il sentiero anche a causa di densissime nubi. Questo evento portò il Santucci ad una “esortazione” e ad una esclamazione al Cielo, tale da permettere il dileguarsi delle nubi e l’illuminazione della via al chiaro di luna. Per questo evento fu redatto pubblico rogito notarile con l’intervento di molti sottoscrittori, tra cui Filippo Colonna in data 18 novembre 1605, nel quale fu menzionato il giorno della traslazione, 11 aprile 1591. 

Nel 1588, ebbe il titolo di priore dall’abate generale, Vincenzo da Tocco. Nel 1616, Paolo V, ad istanza del Capitolo generale e del cardinale Bellarmino, protettore dell’ordine, emanò una Bolla che regolava la nomina degli abati secondo nuove prerogative. Così il titolo fu concesso a Pietro Santucci (nonostante il suo cenobio non avesse 12 monaci) e divenne primo abate della Maiella, grazie ai meriti riconosciuti. Provvide, pertanto, a dotare la Chiesa di sacre vesti, anche pontificali. Molti padri capitolari pensarono anche di farlo abate generale, chiedendoglielo esplicitamente, ma lui con umiltà rispondeva che non lo avrebbe mai consentito, tranne se costretto dall’ubbidienza alla Religione. 

Era solito svegliarsi e alzarsi a mezzanotte per le orazioni mentali e la sua sola aspirazione era di essere un buon servo di Gesù Cristo. Soleva dire “Figliuoli amiate N. Sig. Giesù Christo, perche così tremerà per l’invidia, e fugirà per l’horrore il demonio”. 

Nell’anno 1617, mentre era a Chieti, passò la Santissima Eucarestia, che un sacerdote conduceva per un infermo. Si prostrò a terra con immensa devozione, lasciandosi rapire dalla grazia di Dio, avvertendo dei mancamenti. Da allora ogni volta che si trovava in presenza dell’Eucarestia, pativa svenimenti, rapimenti di cuore, estasi e quasi agonia, respirando affannosamente. Essendo questi fatti divenuti pubblici, aumentò la devozione del popolo nei suoi confronti. Capitò persino che durante la messa, mentre meditava il Signore nella Sacra Ostia, si librava di un palmo sopra lo sgabello dell’altare, chiedendo perdono al Signore davanti il Crocifisso, per aver rivelato il favore dell’Onnipotente nei suoi confronti. Spiegava che ciò che pativa, come le sue estasi, erano presenti 

negli Opuscoli di S. Bonaventura, dai quali apprese che la meditazione è di notevole importanza, e che ogni Servo di Dio non doveva gloriarsi, bensì reputarsene indegno, per non incorrere nelle tentazioni di vanagloria. 

Il 29 settembre 1626 morì fra’ Benedetto della Roccamorice e l’abate, mentre riposava, ebbe la visione di una scala che si ergeva da terra verso il cielo, da dove scendevano angeli a prendere l’anima del defunto. Dopo essersi destato, vide fra’ Benedetto in mezzo agli spiriti celesti e, con sommo gaudio, dopo aver ringraziato il Signore, informò gli altri monaci. 

“Fù questo Padre talmente dotato da Dio di tal dono di scacciar da’ corpi humani i spiriti dell’inferno, che per concetto commune non hebbe la Chiesa di Dio in quella età un suo pari: e si rese sì formidabile Esorcista, che fu da’ demonij temuto e da gli huomini stimato un’altro Antonio Abbate”. Il Santucci deve la sua fama anche alla lotta contro il demonio. Migliaia furono le battaglie intercorse tra il Servo di Dio e il Maligno. 

Nel 1593, il Giovedì Santo, il Padre effettuò un doppio esorcismo nella camera di S. Pietro Celestino. Una donna era posseduta da un demone di nome Maccone, il quale dopo il rito e dopo esser stato cacciato dal corpo della signora, entrò a possedere un eremita, in peccato mortale, che voleva assistere il padre abate. Al momento della possessione, i capelli dell’uomo si drizzarono e i presenti fuggirono. Ma non Santucci che riuscì a liberare anche lui. Nel corso del tempo, altre persone furono liberate. Tra queste, Vincenza e Laudonia Rozzi di Campli e il barone di Roccamorice Giovanni Battista Valignani. Nel 1619, avvenne la liberazione della signora Speranza di Moiano, dopo circa 11 anni di possessione. 

Nel 1620, una matrona di Atri, di nome Polisena, fu portata nel monastero e, mentre si avvicinavano al luogo sacro, una tempesta di pioggia e saette si abbatté sulla Maiella e sul cenobio. Il venerabile Padre disse ai monaci che era opera dei demoni. Prese la croce e iniziò una preghiera di liberazione, poiché aveva anche la virtù di cacciare i demoni dai luoghi. Nel frattempo giunsero le persone con la signora ossessa e dopo aver verificato il collegamento di quanto predetto, si dedicò a esorcizzare la donna. Al termine del rito, anche la tempesta cessò. Tempo dopo, alla morte del marito, la donna si fece monaca. 

Sempre nel 1620, un soldato di stanza a Caramanico di nome Lelio Campobassi, dopo essere stato offeso da un suo commilitone, si recò in una selva oscura, dove fece un patto con il demonio. In cambio della sua anima, chiese di poter lasciare la compagnia militare. Quando ritornò a casa, si accorse che le armi si muovevano da sole, e questi eventi divennero subito noti agli altri soldati, che pensarono bene di condurlo dal Santucci, il quale impiegò più giorni per liberarlo, poiché, ogni volta che veniva liberato e rincasava, tornava nuovamente posseduto. Quando lo portarono per la terza volta, l’abate capì che vi era stato un patto, difficile da spezzare, e così, davanti il SS. Sacramento, fece confessare l’indemoniato di aver fatto il patto e, con un rito specifico, fece fare la rinuncia a esso e al demonio, ottenendone la liberazione. 

Nel 1622, un uomo, che si presentava molto forte, fu legato, incatenato dai parenti e portato alla presenza dell’abate, il quale, non senza fatica, lo guarì. Il graziato, per sdebitarsi, baciò i piedi del Santucci e dei monaci. 

Il Santucci, essendo molto devoto di S. Maria Maddalena, nel 1624, edificò una cappella sopra la Chiesa di S. Spirito, dove fu liberato un uomo che, nell’agitazione, bestemmiò quella Santa chiamandola “publica meretrice”. Prima di essere cacciato, lo spirito sollevò il posseduto facendogli battere la testa con il soffitto e lasciandolo cadere a terra. 

Nel 1630, due sorelle e un uomo, marito di una di esse, provenienti dalla terra di Pianella, entrarono nella chiesa, ballarono e vociferarono. L’abate, accortosi del frastuono, andò incontro, li toccò liberandoli dagli spiriti, causando la fuoriuscita di due ossa dalla bocca dell’uomo. 

 

Immagine 5: Papa Celestino V

 

Da ricordare l’esorcismo fatto a Giorgio di Caramanico, posseduto da molti demoni. Tra gli altri, vi è la vicenda riguardante una ricca donna di Roccamorice, la quale era considerata una maga e, per opera sua, molte persone erano state possedute da spiriti maligni. Un giorno, l’abate si recò in una chiesa del posto per liberare una persona ossessa e si accorse che la maga assisteva, godendo del male fatto. Il Padre esorcizzò la posseduta spingendo lo spirito immondo appena cacciato “a infestare la maliarda” che rimase posseduta, divenendo inferma e restando tale fino alla morte. Nel suo testamento ordinò, però, di farsi seppellire in S. Spirito a Maiella e dopo molti anni, i parenti ne trasferirono il corpo dalla Chiesa alla Grotta di S. Pietro Celestino. 

Tra gli altri esorcizzati, una donna di Pescosansonesco, in gravidanza per 14 mesi e Giovanni Antonio di Catignano. 

Nel periodo in cui dimorava a Napoli, chiamato dal principe di Conca, D. Matteo di Capua, il Padre liberò parzialmente un prete che, prima di farsi chierico, aveva avuto moglie e aveva invocato il demonio per avere vigore e sfrenata libidine. Questo sacerdote andò a Roma per essere definitivamente liberato e il pontefice, Clemente VIII, lo inviò da un Padre Servita, che non riuscì a esorcizzarlo. Allora lo rispedirono da padre Santucci. Mentre l’indemoniato si trovava nella Terra di Popoli, lo spirito malvagio lasciò il corpo del prete per timore di trovarsi al cospetto del Padre sipontino. 

È opportuno ricordare che l’Abate, spesse volte, affermava che non sempre vi erano segni diabolici in coloro che chiedevano di essere liberati e che spesso le persone “si fingono tali per mal fine”. 

Il Servo di Dio liberò anche alcuni colpiti da “fatture”, come Federico del Caro (figlio dell’auditore), il quale era in fin di vita, e la signora Cortese di Chieti, alla quale, a seguito di un esorcismo, nel suo materasso, furono rinvenuti due cagnolini morti, che furono dati alle fiamme. 

Il Nostro era solito conferire la seguente benedizione ai suoi devoti: “Signo te signaculo Sanctae Crucis, ut diabolus non habeat amplius in te potestatem: sed Sancta Trinitas custodiat, & perducat te in vitam aeternam”, mentre per i riti si avvaleva di una piccola croce in legno e una stola. Il Santissimo Sacramento, invece, veniva impiegato per liberare gli ossessi quando gli spiriti immondi erano più resistenti. Spesso bastava portare i posseduti davanti l’immagine di Maria Vergine e al Santissimo Crocifisso per ottenerne la liberazione. 

Celestino Telera scrisse che “possiamo gloriarci di haver havuto in questi nostri ultimi tempi un Padre, che fù il terrore, & il flagello dell’inferno […]: & acquistò nel mondo tanto gran credito, che lo stimarono uno de’ primi esorcisti di S. Chiesa”. 

Al Padre Benedetto del Colle, moribondo, apparve il demonio in sembianze della Vergine Maria, facendo la felicità del monaco. Sentendo ciò il Santucci, lo mise in allerta invitandolo a osservare bene se ciò che gli era apparso avesse le corna, dato che il maligno usa trasfigurarsi. L’infermo ubbidì e si accorse delle protuberanze e della presenza di un gran numero di demoni andargli incontro; così chiese l’aiuto dell’Abate, che cacciò, con potenti preghiere, il male presente e purificò l’infermo. Dopo la morte del monaco, questi apparve al Sipontino ringraziandolo dell’assistenza spirituale. 

Naturalmente, più volte il Servo di Dio fu attaccato dal demonio, ma sempre invano. Tuttavia, nel 1635, dopo aver esorcizzato una donna, il padre salì per recarsi nel dormitorio e i demoni, che gli apparvero in “forma di mostruosissimi vecchioni”, lo spinsero giù per le scale, ferendolo. Fu aiutato a rialzarsi dagli altri monaci e portato nella sua stanza, dove ricomparvero gli 

spiriti maligni, i quali affermarono che il loro obiettivo era di ammazzarlo, ma non gli era stato permesso. È chiaro che l’Onnipotente vegliava su di lui. 

Mentre l’abate era a Chieti, fu chiamato per salvare una donna che si era accasciata senza apparente motivo. Il Sipontino, recatosi presso la casa della giovane che sembrava morta, pronunciò le parole “Ephpheta quod est aperire in nomine Iesu Christi”. La giovane aprì gli occhi e la bocca, generando felicità e devozione nei presenti. 

Una giovane ossessa fu portata nel monastero di Collemaggio, a L’Aquila, davanti la tomba di S. Pietro Celestino. Questa strepitava in maniera eccessiva, così un monaco, prese in disparte i parenti e, molto distante dalla ragazza, disse loro di portarla alla Maiella per guarirla. Il demonio, che era riuscito a sentire quanto vociferato, esclamò che non avrebbe permesso di essere portato da “Fra Pietro della Maiella, à quel nostro persecutore”. Quanto timore mostravano gli spiriti maligni nei confronti di quel Sant’uomo! Il nome del Sipontino veniva invocato spesso per difendersi dalle insidie e dai timori che giungevano dal Maligno. 

Nel 1616, a Caramanico, fu esorcizzata la signora Lucrezia Scarnata. Gli spiriti cacciati osarono affermare: “Sappi che mentre quì ci tormenti, per opera de nostri compagni si è dato fuoco al tuo Monastero di S. Spirito”. Tra gli spiriti è menzionato Maccone, demone che più volte battagliò con il nostro Pietro. 

Non fu l’unica volta che il Male tentò di distruggere quel Monastero. Dopo il fuoco, ci provò nel 1617 con un grosso macigno, staccatosi dalla montagna. Mentre scendeva in direzione del monastero, prossimo a questo, spiccò un salto lasciandolo intatto. Successivamente, Santucci fece costruire un muro di fianco alla chiesa, dentro il quale vi pose la cera benedetta da Pio V. 

Il Sipontino fu molto stimato dai principi, tant’è che, nel 1628, il cardinale Scipione Borghese, affetto da febbre acuta e risipola al braccio, chiese al suddetto abate di trasferirsi a Roma per alleviare i suoi dolori. Tuttavia, Pietro rispose che non era in grado di cavalcare, a causa della podagra. Il cardinale, per ovviare a questo problema, gli inviò una lettiga, che gli permise di recarsi nella città eterna. Nel momento in cui i due si abbracciarono, la febbre e la risipola scomparvero, con meraviglia di tutta la corte. L’abate vi restò alcuni giorni e, dopo aver dato dei consigli spirituali, partì, con un dono di 200 scudi fatto dal cardinale per il Monastero. 

 

Immagine 6: Il Cardinale Scipione Borghese

 

Tra gli altri miracoli, merita menzione quello avvenuto al piccolo “Horatio Henrici” di Chieti, il quale infermatosi gravemente e rimasto allettato per 14 mesi, venne portato presso il Santucci, che lo benedì e gli ridiede la salute. 

Un altro prodigio riguarda un cavaliere inglese che, divenuto cattolico, fece di tutto per conoscere Pietro e, dopo aver soddisfatto la sua curiosità, partì. Ma un forte dolore alla coscia non gli permise di stare in piedi, né seduto né a letto. Così ritornò al monastero, dove l’abate unse la parte dolorosa con l’olio di S. Cipriano e poi lo benedisse con la croce. Subito dopo il cavaliere manifestò di non sentire più alcun dolore. 

Ed ancora, la duchessa Di Tommaso, caduta per 30 canne (circa 60 metri) da un dirupo, fu portata dal monaco celestino, che si prostrò e prodigò nella preghiera davanti l’altare della Beata Vergine, facendole riacquistare i sensi, grazie all’intercessione di due figure celesti. 

Tra le altre sue virtù, vi era anche quella di rendere la ragione ai pazzi, come avvenne nel 1589 a Giovanni Coccia di Caramanico; e quella di ridare la salute ai paralitici, come avvenne al giovane nipote di D. Francesco Ucellucci, ad una parente dell’arciprete di Ripa di Chieti e ad un ragazzo di 13 anni, di nome Benedetto, della città di Chieti. 

Il Santucci manifestò anche il dono della profezia, quando predisse la gravidanza alla moglie di Filippo Colonna (Connestabile del Regno) e quando fu chiamato a Napoli, trattenuto per mesi, dal principe di Conca, Matteo di Capua, per assistere e pregare affinché il parto della moglie, Giovanna Pacecco, andasse a buon fine. 

“Era hormai sì grande la fama di questo benedetto Padre, che benche racchiuso in quell’aspro monte, si fè conoscere à gran parte d’Italia, massime appresso i Grandi”. Fu riverito anche dal Cardinale Vidone e dal Vescovo di Sulmona, Francesco del Cavaliere. 

Il cardinale Scipione Borghese soleva, per sua consolazione spirituale, scrivere al Servo di Dio una volta al mese, cercando sempre delle risposte e dimostrando molta fiducia nelle sue preghiere. Il cardinale Bentivoglio, che fu comprotettore dei Celestini, “godeva di tenerselo per qualche spatio di tempo abbracciato; nè mancò di conferir seco molte cose di coscienza”. Al momento della sua partenza da Roma, il Sipontino fu trattenuto dai cardinali Borghese, Borgia, Vidone e Bentivoglio, i quali chiesero di essere presenti nelle orazioni dell’abate. 

Filippo Colonna, devoto di Pietro, fece conseguire molte rendite per il mantenimento del monastero, concedendogli anche la possibilità di procurarsi legna e altre necessità nelle sue terre. 

Monsignor Peruzzi, arcivescovo di Chieti, camminava a piedi, rinunciando alla lettiga, per devozione, ogni volta che doveva incontrarlo. 

Quando il Celestino si recava nella città teatina, o in altre terre, molta gente usciva per toccargli l’abito (a volte riuscivano anche a tagliare dei pezzi) e per baciargli le mani, come se passasse un Santo, cercandone la benedizione. 

Negli ultimi anni, a causa della sua infermità, non poteva più effettuare gli esorcismi (che venivano eseguiti dai suoi discepoli), ciò nonostante, la gente lo invocava sempre affinché ponesse la propria mano sulla loro testa per la benedizione. 

Avendo dimorato 55 anni nell’eremo della Maiella con “edificatione de popoli, e giovamento d’infermi, che ricevevano in quel sagro monte la salute, fù da tutti chiamato D. Pietro della Maiella”, e non Santucci o Pietro da Manfredonia. 

Nel 1632, a Caramanico, 400 combattenti, divisi in più fazioni, volevano darsi battaglia a colpi di archibugi. Per questo motivo, il vicario generale di Chieti si recò sul posto per sedare gli animi, ma senza successo. Per timore di subire ritorsioni, si rinchiuse nel convento dei Cappuccini. Tale situazione fu portata a conoscenza del nostro abate, che si precipitò immediatamente in mezzo ai combattenti parlando ai capi delle fazioni, che si mostrarono rispettosi nei suoi confronti. Così, Pietro si recò dal vicario per informarlo di essere riuscito nell’intento, ma subito dopo un messo lo avvisò che la zuffa stava nuovamente per iniziare. Pertanto, il Servo di Dio ritornò sul posto gridando a gran voce “pace, pace”, trattò nuovamente con loro e dopo averli calmati, li portò tutti nella chiesa maggiore, dove prese il Santissimo Sacramento, facendolo toccare e giurare, prima ai capi e poi ai seguaci, che non avrebbero battagliato. Per festeggiare la pace furono suonate le campane di tutte le chiese e mentre saliva sul cavallo per tornare sulla Maiella e passava tra la gente, questa lo esaltava benedicendolo, cercando la benedizione che veniva elargita con segno di croce. 

Nel 1641, l’ultimo giorno di gennaio, il Santucci si svegliò per recitare alcune preghiere e in presenza degli altri monaci fece intendere che la sua morte era vicina. Prese l’Eucarestia, fece pubblicamente professione di fede e di “voler morire nel destro braccio della Croce di Christo”. Ricordò ai suoi confratelli “la professione monastica, e l’haver à cuore l’edificatione, & il buon esempio, che devono i Religiosi dar à secolari”, esprimendo “il suo desiderio di mantenere il servitio di Dio, e la divotione di quel sagro Monastero, acciò il demonio non potesse gloriarsi di vederlo desolato”. Al termine ricevette l’estrema unzione. Un monaco rimasto con lui udì una voce, avvisandolo che il tempo del Padre Abate era giunto. Notò che vicino la bocca del Sipontino erano presenti “come volanti, molte cosette bianche”; chiamò gli altri padri che subito accorsero. Così si 

assistette, il primo febbraio 1641, al trapasso del Servo di Dio Pietro Santucci da Manfredonia, abate della Maiella, di 79 anni, di cui 55 come solitario della Maiella. 

 

Immagine 7: Monastero di Santo Spirito a Majella

 

Piansero i suoi discepoli. Il suo corpo, dopo il funerale, fu seppellito in una tomba preparata dallo stesso Santucci e ubicata dietro l’altare maggiore (ancora visibile), non lontana dalla fonte dell’acqua santa, affinché chiunque potesse benedirlo e recitargli il “Deprofundis”. L’epitaffio in latino fu composto dall’abate Celestino Telera, tradotto dall’arcivescovo sipontino, Pasquale Gagliardi, così come segue: “D. Pietro Santucci di Siponto, primo Abbate di questo sacro cenobio avendo illustrato il suo edificio con la Città, insigne per sante virtù e per ragioni di guarigioni d’infermità, specialmente nei casi violenti, dorme sotto questa lapide, donde dovrà resuscitare. Morì il 1° febbraio 1641, dell’età sua 79”. 

Dopo la sua morte, si verificarono molte grazie, tra queste quella occorsa all’abate generale Domenico Chimenti, il quale pativa alcune infermità dalle quali guarì dopo aver applicato su di loro alcuni abiti del defunto Pietro, restando molto stupefatto. 

Due monache celestine de L’Aquila, toccando alcune vesti del venerabile Padre, guarirono dalle loro gravi infermità. Da Isernia, un gran numero di persone devote, per le grazie concesse da un panno del Santucci, si recava in pellegrinaggio presso quel sacro speco. Un tale di nome Fabiano, senza che fosse esorcizzato dal sacerdote, una volta entrato nella chiesa della Maiella, fu liberato dal demonio, sputando un pezzo di piombo. 

Il napoletano Domenico Castelli, capitano di fanteria, mentre era nella città di Aversa con i suoi soldati, si infermò di un male che per i medici era incurabile. Alcuni padri celestini del monastero di Aversa andarono ad assisterlo e a raccomandargli l’anima. Un monaco ricordandosi di avere appresso un berretto di tela usato dal padre Santucci, mentre era in vita, lo pose al moribondo, proponendogli di applicarlo sulla zona dolorosa e di confidare nell’intercessione del venerato Pietro. Eseguito il tutto con somma devozione, impetrò la salute, che miracolosamente gli tornò. La notte, al capitano apparve il Santucci, al quale il militare manifestò la sua devozione. 

Devota lo era anche la signora Ippolita Valignani che conservava in casa sua l’immagine di questo Servo di Dio. 

L’abate Celestino Telera terminò la biografia di Pietro Santucci, riportando, a futura memoria, che le grazie e i miracoli occorsi a coloro che chiesero l’intercessione dell’abate della Maiella furono tramandati in conformità a quanto disposto con gli ordini Apostolici. 

Inoltre, egli sperava che la Chiesa si adoperasse per la canonizzazione del Santucci, “affinche compiacendosi il Signore di glorificar il suo Servo in terra con tanto numero di gratie, che possano muovere S. Chiesa à procedere, come hà costumato con altri”. 

Purtroppo questo non avvenne, forse a causa dello scioglimento della Congregazione dei Celestini o forse per mancanza di volontà sia da parte dei religiosi abruzzesi che di quelli sipontini. Ancora oggi, “una dimenticanza molto grave!”. 

Infine è doveroso citare un passo del Pascale, il quale fu tra i primi sipontini a rendere omaggio all’abate Santucci con queste parole: “Sono questi gli avanzi ed i ricordi di un’antica grandezza, storicamente illustrata: ma il Sipontino, che si aggira nel sepolcreto, sofferma il piede e rimane pensoso dinanzi ad una lapide, che gli ricorda un suo concittadino dimenticato”. Ormai quella lapide non esiste più, distrutta dal tempo e dall’incuria dell’uomo. Si spera che il tempo e la scelleratezza dell’uomo non cancellino anche la memoria di Santucci e di altri nostri illustri concittadini, ma il tutto, se si vuole, si può ricostruire. 

 

Giacomo Telera