Papaveri e papere* di Maria Luisa Nava

La cultura non si eredita, si conquista

Andrè Malraux

Da qualche anno a questa parte, in diversi siti online che pubblicano notizie e informazioni di tenore archeologico, e reiteratamente soprattutto sulla “Rivista Arte Preistorica” online, sono comparsi numerosi articoli sulle stele daunie a firma di Maria Laura Leone, che propongono una sorprendente interpretazione delle figurazioni contenute su questi monumenti, nonché del loro significato, dall’autrice stessa definita in maniera roboante «innovativa». Si fa riferimento in particolare all’ultimo articolo editato recentemente dal titolo “Daunia antica. Artigiane, terapeute, sacerdotesse: le donne delle stele”[1].

L’autrice, che si presenta come «paletnologa, ricercatrice di arte preistorica e docente di Storia dell’Arte», le cui ricerche «sono inquadrate in un’ottica metodologica e interpretativa avanzata», esplicita già dai titoli dei lavori il tema delle sue investigazioni imperniata «sulla semiotica dell’arte preistorica e tribale»[2].

In particolare, questi «studi sugli aspetti ideologici e religiosi della preistoria in Puglia» in cui l’autrice spiega la sua «innovativa interpretazione» sulla funzione dei monumenti, si fregiano di titoli quali: “Oppio. “Papaver Somniferum”, la pianta sacra ai Dauni delle Stele”[3] eLa botanique sacrée des opiacés en Daunia (Italie VII-VI sec.a.C.)”[4] o ancora “Botanica sacra oppiacea nella Daunia (Sud Italia) tra VII-VI sec. a.C.”[5]e presentano «il significato sacerdotale delle Stele Daunie correlato alla sacralità del Papavero da Oppio».

Il concetto che la religiosità dei Dauni si incentri sul papavero da oppio e che l’uso delle droghe da questo ricavate siano la base di «un culto legato alle statue-stele» è il tema dominante degli scritti della Leone, che vede in molte raffigurazioni presenti sulle stele (da lei definite «scenette») un «mondo sacro legato alla farmacologia analgesica di 2700 anni fa». E cosi interpreta tutto il corpus delle stele come monumenti a destinazione santuariale, contestandone, con argomenti che non tengono conto dei dati oggettivi relativi ai ritrovamenti dislocati su tutto il territorio daunio, l’evidente destinazione funeraria di questi reperti. Tra gli argomenti portati nelle sue confutazioni, si avvale anche di confronti con il complesso delle stele di Castelluccio dei Sauri o di Aosta, la cui collocazione cronologica si colloca con una precedenza di ben 2.000 anni rispetto alle stele del Tavoliere.

Ora, chi scrive è stata per oltre un decennio allieva e collaboratrice di Silvio Ferri, lo studioso che ha riconosciuto per primo le stele della Daunia come monumenti archeologici, prodotti originali della civiltà indigena della Puglia preromana, e che con i suoi scritti ha portato a conoscenza del mondo scientifico questo importante complesso scultoreo. E

che non vi siano dubbi sulla destinazione funeraria di questi documenti è apparso subito evidente, non solo al Ferri, ma a tutti gli studiosi delle antiche civiltà italiche. Infatti, chi conosce le stele sa bene come questa produzione derivi dalla precedente scultura in pietra che si caratterizza come sema funerario distintivo delle sepolture nelle necropoli del Gargano, a partire almeno dal XI sec. a.C., nei momenti finali dell’età del bronzo, e si protrae nella successiva età del ferro, allorché, in concomitanza con la fioritura dei centri protourbani del Tavoliere, diviene l’elemento più significativo e connotante delle singole tombe nelle aree sepolcrali.

Per il riconoscimento della funzione e destinazione funeraria delle stele, d’altra parte, poco conta il fatto – portato a prova dalla Leone –  che i singoli monumenti non siano stati ritrovati in un relazione ad una specifica tomba: le modalità di rinvenimento delle stele, venute alla luce a seguito dell’introduzione degli aratri meccanici nelle coltivazioni del Tavoliere, sono constatazioni più che probanti e che non possono essere messe in discussione, se non di fronte a prove certe e indiscutibili di una loro differente finalità e funzione. E la Leone non pare in grado di contestare se non con le proprie affermazioni tali evidenti assunti. Infatti, per la nostra non conta che le migliaia di stele rinvenute in Daunia siano diffuse su tutto l’ampio territorio che si estende per svariate decine di chilometri (da Teanum Apulum a Siponto, Salapia, Herdonea, Ausculum … sino a Melfi, che in antico era ricompresa nella Daunia). Per lei, siamo sempre in presenza di sculture provenienti da un santuario, quanto esteso non è dato di conoscere. E la sua arbitraria asserzione è stata recepita, ça va sans dire, dal mondo del web[6], sempre pronto al sensazionalismo a cui questo genere di scritti tende e si ispira.

D’altra parte, se è evidente, almeno per che compie ricerche in campo scientifico, il legame tra le sculture del Gargano e le stele del Tavoliere, è altrettanto evidente che – dalle aree cemeteriali garganiche da cui provengono i semata funerari in pietra che costituiscono i precedenti culturali delle stele – l’uso del monumento funerario si sia diffuso anche nel Tavoliere, allorché anche in questo territorio, come nei restanti centri abitati indigeni della Penisola a partire dall’avanzato VIII sec. a. C., emergono quei ceti aristocratici che si avvalgono anche nelle sepolture di tutta una simbologia che li distingue e che ne denunzia il potere, e che in Daunia utilizzano la rappresentazione scultorea di sè stessi per affermare la supremazia individuale.

Ma ciò non conta per la nostra, per la quale il dato cronologico e l’evidente discrepanza temporale tra i gruppi di Aosta, di Castelluccio e del Tavoliere della Daunia non hanno importanza, e che insiste caparbiamente nella convinzione che tutto il mondo trascendente, le credenze escatologiche e la conseguente ritualità dei Dauni abbiano come fulcro ed elemento fondante il culto del papavero da oppio.

Questa distorta visione della mistica religiosa daunia la conduce travisare in maniera totale non solo il significato e il più profondo significante dei monumenti, che celebrano attraverso le immagini il “cursus honorum” (reale e/o anche immaginario per meglio glorificare il potere del singolo e del clan a cui appartiene), il passato glorioso e la potenza dell’aristocratico defunto, ma anche la più che evidente accezione delle rappresentazioni e l’attribuzione delle stele a guerrieri, piuttosto che a notabili e a personaggi femminili.

Infatti (ma in questo la Leone trova nutrita compagnia in altri scritti di studiosi che si sono cimentati con questa complessa materia in maniera sporadica e del tutto episodica), la nostra interpreta come “stele di sacerdotesse” tutto l’insieme delle stele da chi scrive definite come appartenenti alla classe con ornamenti, ben distinta da quella con armi, ma riferibile a stele di notabili, come evidenziato sia dalla presenza di scene figurate con guerrieri anche in combattimento, ma anche e soprattutto dalla preponderanze numerica dei monumenti di questa classe, che non sono stati certo realizzati da una popolazione a base matriarcale!

E dunque, ribadisco ancora una volta che le stele a destinazione femminile sono solo quelle in cui compare una treccia posteriore a rilievo, elemento peculiare, esclusivo e caratteristico di tutte le rappresentazioni di donne, sia sulle stele che nelle figurazioni di tutto il restante mondo italico coevo, ceramica daunia compresa. La Leone dovrebbe ben saperlo, visto che cita autori che hanno ampiamente illustrato l’iconografia muliebre anche in area etrusca, come Patrizia von Eles.

Ma è proprio qui che viene il bello.

La Leone, in ciò sostenuta da altro illustre scienziato di formazione fitologica, tal Giorgio Samorini che avvalora le brillanti ipotesi archeologiche con le interpretazioni botaniche del «grafema di un circolo o più circoli concentrici con al centro un punto, attaccato a un’asta lineare, a volte dotata di foglie laterali, tali da tradire un suo significato vegetale»[7], immagina che le stele rappresentino il simulacro di sacerdotesse, che nel loro abito «talare» svolgono “azioni auliche” e sono dedite al culto del papavero da oppio e, pertanto, ne recano come insegna la raffigurazione, distribuita ampiamente sul loro abbigliamento liturgico. E la Leone arriva al punto di affermare che “gli attributi a forma di “VVVV”, connessi al bacino della stele con ornamenti sono, a mio avviso, un chiaro indicatore muliebre. Questo dettaglio è di capitale importanza per riconoscere le stele di genere femminili poiché hanno un’analogia con i triangoli pubici singoli o plurimi che compaiono su statuette, pietre, arte parietale e vasellame” e continua “Il numero dei triangoli, da tre a sei, può indicare i giorni del ciclo, la “pausa mensile” che varie culture etniche interpretano come il momento femminile di alta percezione sensoriale.È possibile che il riferimento al ciclo mensile sia da intendere come uno status di verginità aulica. Allo stesso tempo, le grandi fibule incise sul petto del monumento indicherebbero il “fermo” del ruolo mammario” (sic!!!), quindi, rafforzando le sue affermazioni, asserisce che “Secondo un’analisi personale i segni a “VVVV”, possibili “grembiuli” simbolici della fertilità”, concludendo con la stupefacente proclamazione che “La stele, così, si rivela il simulacro di un culto ierobotanico e i suoi papaveri, agganciati alla cintura e rovesciati verso il basso, rappresenterebbero una seminagione rituale che, evidentemente, avveniva per il tramite di una vergine con il ciclo.

Questa strabiliante, e quasi delirante, interpretazione è corroborata, a dire della nostra, da una serie di testimonianze anche letterarie antiche. Rifacendosi all’Alessandra (vv. 126/141), asserisce che la presenza del santuario dedicato a Cassandra menzionato da Licofrone (che, come è stato ribadito anche in recenti studi non era localizzato nel poema a Salapia, bensì, più verosimilmente, sulle rive del lago di Salpi e non presso il centro abitato[8]), avvalori le sue ipotesi sulla presenza di sacerdotesse daunie e sui loro riti di verginità, dimenticandosi il dato fondamentale, e cioè che l’opera risale ad avanzata età ellenistica (inizi del III sec. a. C.) e non certo all’epoca delle stele.

Ma non basta: anche la treccia posteriore (dalla Leone definita “codino”, sic!) che caratterizza costantemente le acconciature femminili sia nelle scene figurate incise sui monumenti che le stesse stele a destinazione femminile, dove è rappresentata sia a rilievo che ad incisione nel lato posteriore, e che presenta la terminazione con uno o più pendagli circolari, sarebbe completata da uno o più papaveri da oppio …

Conseguentemente, tutte le schematiche rappresentazioni di pendenti circolari, ottenuti – come tutti i cerchi e cerchietti – con uno strumento simile ad un compasso, unitamente alle stilizzate rappresentazioni di melograni, entrambi ampiamente presenti tra i realia che compongono i corredi funerari indigeni in tutto il mondo suditalico preromano[9], sono interpretate dalla coppia Leone e Samorini come papaveri da oppio, il cui uso sarebbe secondo loro alla base di tutta la ritualità del mondo daunio, sia nell’utilizzo terapeutico che in un impiego sciamanico-religioso di tutte le manifestazioni cultuali.

Tutto ciò è un’evidente interpretazione alquanto distorta e fantasiosa, tipica di coloro i quali, misconoscendo il mondo antico e i doverosi e rigorosi sistemi interpretativi che si acquisiscono con gli studi e gli approfondimenti scientifici, si avvicinano all’iconografia archeologica senza conoscerne i metodi interpretativi e senza cognizione alcuna delle implicazioni delle rappresentazioni che si collocano spesso, come nel caso delle stele daunie, in un più ampio complesso panorama di credenze  escatologiche e religiose.

E seguendo il pensiero dei due, vien da osservare che chiunque, posto di fronte ad un grafema o a una stilizzazione di un elemento vegetale (sia esso un melograno, un loto, la cui forma stilizzata è molto simile a quella del papavero in ambito archeologico, o un papavero, appunto) potrebbe proporre letture differenti quanto fantasticanti e da lì partire per formulare teorie vaneggianti e insensate.

A tal proposito va osservato che, al momento, se è ormai accertato che il papavero da oppio venisse coltivato e impiegato nella farmacopea egizia – a esclusivo scopo terapeutico – sin dai tempi di Akhenaton e Tutankhamon e più tardi anche in quella greca[10], non risulta alcuna prova concreta che i Dauni, al pari delle altre popolazioni indigene dell’Italia Meridionale, avessero conoscenza diretta del papaverum somniferum, poiché nessun dato ci proviene né dalle fonti archeologiche, né letterarie, né tanto meno sono emersi negli studi palinologici finora condotti elementi che possano indiziarne la coltivazione e l’impiego, sia in campo terapeutico che ancor meno per altri scopi, da parte degli ethne indigeni che da parte dei coloni greci stanziati nel Sud dell’Italia.

Diverse sono le considerazioni che si possono avanzare rispetto all’eventuale utilizzo a scopo curativo e medicamentoso del papaver rhoeas, il papavero comune, che rappresenta una specie ampiamente diffusa in tutto il Mediterraneo (e in Italia se ne conoscono 14 specie spontanee), oltre che nel Vicino Oriente. Pertanto, non deve stupire che il suo uso sia stato comune nella farmacopea antica, come del resto quello di molte altre erbe officinali autoctone che sono endemiche e spontanee della flora mediterranea.

A riprova di ciò esistono testimonianze che si riferiscono alla tradizione popolare che vede l’infuso di papavero utilizzato per conciliare il sonno, soprattutto nei bambini, e come calmante per le sue doti sedative ed antispasmodiche, mentre oltre ai semi, anche le foglie ed i germogli hanno usi culinarii, ben noti nelle cucine regionali italiane.

Quanto qui esposto ha l’unico fine e lo scopo preciso di comunicare a quanti si interessano dei Dauni e delle antiche popolazioni preromane della nostra Penisola informazioni corrette e rispondenti ai dati che ci pervengono sia dalle fonti antiche che dalle ricerche sul campo. Negli scritti della Leone e di Samorini  – pur trincerati dietro ad un’ampia e spropositata bibliografia (in cui sono inseriti testi e rimandi bibliografici del tutto inconferenti all’argomento trattato) – si travisano – a proprio uso e consumo per corroborare le proprie ipotesi fantasiose – le obiettive evidenze archeologiche che riguardano la storia dell’ethnos indigeno della Puglia, senza nessun rispetto non solo per i Dauni, ridotti a meri lotofagi dediti a culti psico-misterici, ma anche per coloro che lavorano seriamente e che compiono ricerche (annose e faticose) i cui risultati sono esposti esclusivamente utilizzando il suffragio dei dati archeologici recuperati direttamente sul campo. E le relative pubblicazioni sono edite su riviste che si avvalgono di referies per il controllo della serietà degli scritti, universalmente riconosciute dal mondo scientifico internazionale.

Purtroppo, negli ultimi decenni si è assistito, con la diffusione della comunicazione via web, ad un proliferare di fake news divulgate da sedicenti esperti che ammantano di pseudo-scientificità asserzioni e interpretazioni strampalate, prive di qualsiasi fondamento concreto e di cui queste elucubrazioni sono esemplari e tangibili prove. Ancora una volta, ahimè, si cerca di conquistarsi una notorietà con bislacche e sconclusionate teorie su fantasmagorici misteri, che affascinano solo gli sprovveduti (che sono molti), svilendo l’opera e il duro lavoro dei ricercatori seri, che non comprometterebbero mail il loro buon nome e la loro solida fama scientifica “pour épater le bourgeois”! E a riprova di quanto finora osservato, proprio poco prima che la Leone divulgasse il parto della sua mente, il Samorini annunziava con toni roboanti il giorno 11.01.2022 su www.statoquotidiano.it,: “Manfredonia, Dauni e le loro droghe: scoperta d’importanza internazionale. Un grande risultato dell’archeologa pugliese Maria Laura Leone”[11].

E’ fondamentale da ultimo un’altra considerazione: la ricerca scientifica si avvale di un principio imprescindibile ed essenziale che è quello dell’attenzione alle usanze e alle credenze degli antichi, unita alla considerazione che il loro stile di vita non può e non deve essere né paragonato al nostro, né tantomeno interpretato con gli strumenti che ci vengono dalle nostre attuali conoscenze. Capire e interpretare il mondo antico è il non facile compito dell’archeologo e dello storico, che non debbono mai forzare – con interpretazioni campate in aria – la realtà della storia.


[1] M.L. Leone, in www.preistoriainitalia.it, dicembre 2021.

[2] Le citazioni tra virgolette « » sono tratte dalla presentazione contenuta in «la prima rivista on-line sulla semiotica, per la quale scrivono studiosi e ricercatori di tutto il mondo www.artepreistorica.it, fondata nel 2001 dalla stessa Leone. Recentemente rinominata www.artepreistorica.com

[3] M.L. Leone, in Bollettino del Centro Camuno di Studi Preistorici, 28, 1995, pp. 57-68.

[4] M.L. Leone, in Artepreistorica.com, 11.01.2010

[5] M.L. Leone, in Eleusis, rivista internazionale su Piante e Composti Psicoattivi (Museo Civico di Rovereto). Nuova serie, 2002-2003, pp. 71-82.

[6] Cfr. T. Valente, Manfredonia (Fg). Nella Daunia l’incredibile Stonehenge della Puglia, in ArcheoMedia, Archeologia on-line, 23.09.2019. Si veda anche M.L.Nava, Manfredonia (Fg). Stonehenge in Daunia? Proprio no!, Ibidem, 10.12.2021.

[7] G. Samorini, L’Oppio fra i Dauni della Puglia, in Giorgio Samorini Network, Studi nel campo fenomenologico delle droghe psicoattive, 18-12-2021.

[8] Cfr. R. Ciardiello, Il culto di Cassandra in Daunia, in Annali dell’Istituto Italiano di Studi Storici, XIV, 1997, pp. 81-136. Si vedano in particolare pp. 94-95.

[9] Cfr. Antica Flora Lucana, Repertorio storico-archeologico (a cura di M.L.Nava, M. Osanna, C. De Faveri), Venosa 2007, s.v. melograno, pp. 153-167.

[10] A.M. Rosso, Poppy and Opium in Ancient Times: Remedy or Narcotic?, in Biomedicine International I, 2010, Historical Perspectives, pp. 81-87.

[11] A riprova se ne riportano testualmente le asserzioni “Manfredonia (Foggia), 10/01/2022- “Dauni dell’antica Puglia e le loro droghe. Grandi novità stanno per essere presentate, una scoperta d’importanza internazionale che evidenza primati dell’Italia meridionale sulle questioni drogologiche. Un grande risultato dell’archeologa pugliese Maria Laura Leone, in questo studio lungo 4 anni con le lentezze e gli ostacoli burocratici delle soprintendenze. E’ un po’ anche una vittoria mia, che da sempre ho creduto in questo studio e a cui ho contribuito come consulente. Attendo l’ok dai livelli alti per comunicarlo. Nell’immagine una stele daunia. Lo riporta il botanico Giorgio Samorini”.

* “Papaveri e papere” è una nota canzone per bambini, scritta da Vittorio Mascheroni, che venne presentata alla seconda edizione del Festival di Sanremo nel 1952, cantata da Nilla Pizzi. Racconta di una piccola papera che vorrebbe mangiare i papaveri. Il ritornello recita testualmente:

“Lo sai che i papaveri son alti, alti, alti

Lo sai che i papaveri son alti, alti, alti

Sei nata paperina, che cosa ci vuoi far”

Potete ascoltarla su Youtube.