VIAGGIO DI UN INGLESE AGLI INIZI DEL ‘900 – di Giacomo Telera

Norman Douglas alla scoperta di Manfredonia e Monte Sant’Angelo.

Nei primi anni del ‘900 un aristocratico scrittore inglese (austriaco di nascita, scozzese e tedesco di sangue), girovagò per il mondo, trascorrendo molto tempo nel Mezzogiorno d’Italia. Visse dapprima a Napoli e poi a Capri dove fu omaggiato della cittadinanza onoraria e dove finì i suoi giorni. Questi fu Norman Douglas (Thüringen, 8 dicembre 1868 – Capri 7 febbraio 1952). Con abbondanza di sfumature descriveva le città meridionali della Penisola, appena visitate, nonché coloro che vi dimoravano, e ogni avvenimento. Raccolse infine il tutto nel volume “Vecchia Calabria” (Old Calabria), edito per la prima volta nel 1915. L’opera rivela in maniera chiara la personalità dell’autore, l’amore che nutre per quelle terre, il suo spirito di osservazione, la visione epicurea e l’ironia. È evidente anche la sua preparazione culturale scientifico-umanistica, soprattutto quando stila dei brevi profili storici delle città rifacendosi ad antichi autori.

Norman Douglas da:ilgazzettinovesuviano.com

Il viaggio nel Sud Italia ebbe inizio nella città di Lucera, della quale elogiò l’ordine e la pulizia delle strade, annotandone la presenza di case basse. Raccontò che amava passeggiare e trovare un po’ di pace nei pressi del castello Svevo-Angioino, dove era solito incontrare un vecchio custode che dava informazioni storiche inattendibili. Rimproverò la città lucerina di essere “infestata dal morbo patriottico della monumentomania”, riferendosi in particolare all’erezione di una statua in onore di Ruggiero Bonghi e alla intitolazione di una strada a Giovanni Bovio. Peraltro non mancò un’accusa alla consuetudine politica – che si presentava ad ogni cambio di amministrazione cittadina – di rimuovere statue e di mutare denominazioni di strade, per far posto a nuovi favoriti. Trovò che la popolazione era “rustica che gesticolava concitata che indossava abiti e cappelli sudici”. Terminò il racconto con un benevolo excursus storico su Federico II e gli Hohenstaufen. 

Il Castello di Lucera da: www.lucera.it

L’itinerario proseguì con un viaggio in treno verso “La città di Manfredi”, titolo del secondo capitolo. Durante il tragitto, dopo aver attraversato il Candelaro, venne colto da un malore che lo costrinse a riposare per un po’ presso una locanda della città sipontina.

Dal colloquio con la proprietaria venne a conoscenza, con enorme meraviglia, della possibilità di scrutare Castel del Monte da dove si trovava. L’autore tratteggiò la vista di cui godeva dal suo alloggio, e si interrogò sul nome di una città costiera in lontananza, forse Barletta o Margherita. Affacciandosi notò il porticciolo e una ventina (e anche più) di barche a vela ancorate; anche la spiaggetta era “punteggiata di barche a vela”. Queste ultime avevano “vele bianche” che recavano “incredibili stemmi a colori dorati di lune e mezzelune e di delfini”; alcune di esse avevano “le punte color arancio, simili a strane farfalle”. C’era pure una cannoniera, ormeggiata in porto, probabilmente connessa all’insurrezione avvenuta in Albania. Udì delle voci che parlavano di arruolamenti di giovani volontari. Scorse un vaporetto che, facendo la spola con le isole Tremiti, sbarcava dei passeggeri. Si accorse di una sorgente d’acqua sgorgante presso la spiaggetta, “malinconicamente trascurata”. Immaginò che questa avesse “contribuito alla decisione di Manfredi di scegliersi il rifugio in questa città”, poiché le sorgenti erano molto rare in queste terre aride (l’Acquedotto Pugliese non era ancora stato realizzato). Suppose perfino che quella sorgente avesse un legame con la “leggenda locale di S. Lorenzo e del Drago”. 

Una veduta del mandracchio della città di Manfredonia da: centroculturamare.org

Descrisse poi la città di Manfredonia, giacente “su una piana che scende con dolcezza verso il mare”; lamentò l’assenza di strade che costeggiassero la marina: “le strade di raccordo finiscono, in un brusco squallore, sul litorale”, prendendosela con chi le aveva progettate e riflettendo su quali fossero i motivi politici, estetici o igienici che avessero impedito “ai diecimila cittadini” di avere un lungomare e di poter “prendere aria nelle afose serate estive”. Non risparmiò qualche critica nemmeno all’ideatore svevo della città, poiché affermò che “la scelta di Manfredonia come porto non dà prova di grande acume da parte del suo fondatore, sia pace all’anima sua! Essa sonnecchierà in eterno nella propria baia mentre il commercio si svolgerà fuori della sua portata; sarà per sempre malarica, con le paludi di Siponto ai margini”. Douglas successivamente corresse il tiro, addossando la colpa di tutto all’assedio turco del 1620.

La padrona della locanda raccontò al viaggiatore inglese che tre mesi prima, durante la stagione invernale (questa annotazione fa supporre che Douglas abbia soggiornato a Manfredonia nella stagione primaverile), si era scatenata una tempesta tanto violenta da frantumare “tutti i lampioni di ferro tra la città e la stazione”. Anche a questa dichiarazione lo scrittore si mostrò molto scettico, come per quella di Castel del Monte, ma trovò conferma della veridicità della notizia, costatando personalmente che “le basi di ghisa sono spaccate a metà, una per una”. Accennò brevemente all’assedio dei Turchi e al ritratto della giovane sipontina Giacometta Beccarino, presa dai maomettani e divenuta sultana. La bellezza riportata nel dipinto colpì molto lo scrittore che non biasimò il sultano per la scelta fatta, anche se considerò “improbabile che una signora dell’harem venisse mostrata a un artista europeo”.

Appena rimessosi in salute, compì qualche giro per la città, osservando la presenza di molti fichi d’India, da lui considerati “grottesca vegetazione”, e altra flora quale la ruta, l’asfodelo, il timo, gli asparagi selvatici, gli iris azzurri e altre specie. A tal proposito pensò “a quanto starebbero meglio gli aggraziati balconi cittadini in ferro battuto se fossero ravvivati da boccioli, da garofani penduli e da pelargonio”. Ma la mancanza d’acqua rendeva la città priva di fiori, e secondo lui anche di canti.

L’unica acqua bevibile era “quella imbottigliata alle fonti minerali di Monte Vulture e vendute dappertutto, a prezzo sufficientemente basso”.

I volti dei campagnoli, a suo dire, avevano “lineamenti di poca attrattiva; […] sembrano spaccati con l’ascia in maschere di cupa virilità”.

L’Inglese si interessò pure del giardino pubblico che circondava il “vecchio castello d’Anjou”, stimandolo “perfino più immaturo di quello di Lucera ma che attesta un maggior gusto”. Espresse qualche perplessità sulla possibilità di continuare ad ammirare la fortezza una volta che gli alberi fossero cresciuti. Al riguardo rivelò i suoi dubbi a un cittadino il quale replicò “banalità con enfasi”, caratteristica questa, secondo l’autore, tipica degli abitanti sipontini. Il cittadino, inoltre, fece intendere che se avesse potuto dirigere lui le cose, “vecchi castelli” e “altre assurdità feudali” sarebbero state ridotte in macerie. 

Douglas, durante il suo passeggio attorno al monumento, si accorse che alcune stanze del castello erano adibite a cementificio, altre servivano “come rifugio ad alcune famiglie povere”. Notò un rilievo di S. Michele con il Drago sulle mura della fortezza e, a differenza di altre raffigurazioni dell’Arcangelo giudicate “di un’infantilità svirilizzata, la negazione del suo carattere divino ed eroico”, in questo caso lo stimò “un vero angelo guerriero di vecchio tipo: grave e serio”.

S. Michele e il Drago – Castello di Manfredonia – Foto dell’autore

Poi giunse al Campanile e ne apprezzò la bellezza, ma definì la Cattedrale “un capannone per omnibus fuori uso”.

Fu colpito dalla collocazione di bandiere rosse lungo le strade, fuori dagli usci, per indicare punti di ristoro, arredati con “rozze sedie poste tra barili e tini pieni di scuro vino rosso”, ma che in estate si dimostravano delle vere e proprie oasi.

Sulle mura esterne di alcune case erano esposte delle targhette metalliche di colore blu con una croce rossa e la scritta bianca «VIGILANZA NOTTURNA». Ciò suscitò enorme curiosità nello scrittore che non perse tempo e chiese spiegazioni ad un individuo di passaggio, il quale lo informò che si trattava di una ditta di “Cerignola o giù di lì” e che questa “persuade le varie giunte municipali, le persuade…capite…”, lasciando intendere che le corrompesse. Una dichiarazione senza fondamento, secondo l’Inglese, che comunque rimarcò che in quel periodo “c’erano molti furti con scasso a Manfredonia”. Il suddetto cittadino continuò la polemica, affermando trattarsi della “solita camorra! Mangiano…mangiano, di padre in figlio. Mangiano, mangiano. Pensano solo a questo, questa razza di assassini…Guardateli…basta guardarli!”, facendo segno verso un anziano signore, accompagnato da un giovane. Ma dopo tale insinuazione si allontanò dallo scrittore, dal quale fu classificato come “ambiguo ed evasivo”.

Il terzo capitolo, intitolato “L’angelo di Manfredonia”, inizia con la cronaca delle apparizioni di S. Michele al vescovo di Siponto, S. Lorenzo Maiorano, e nella sacra grotta di Monte S. Angelo, città definita la “metropoli del culto europeo degli angeli”.

Per visitarla Douglas attese l’arrivo delle belle giornate. Allora convocò un vetturino col quale dovette negoziare le spese del viaggio, alquanto esose (si partì da un prezzo di 65 franchi). Per un attimo l’Inglese stette per rimandare del tutto l’escursione e, per “ricompensa del suo disturbo”, offrì un sigaro al vetturino. Drasticamente il prezzo della corsa scese a 8 franchi; al che finalmente si accordarono per partire il giorno dopo. 

La mattina, appena sveglio, trovò ad attenderlo la carrozza, ma anche “raffiche di pioggia e nevischio” e, peggio ancora, una “detestabile parvenza di prima colazione che è quanto basta per volgere i pensieri dell’uomo più equilibrato al suicidio e al delitto – quando impareranno i meridionali a mangiare una prima colazione decorosa a un’ora decorosa?”. 

Partirono, percorrendo “le ventun svolte della nuova strada carrozzabile”. Durante il tragitto pensò ai prìncipi normanni, agli imperatori, ai pontefici, ai santi e ai pellegrini che avevano scalato la montagna pur di inginocchiarsi al cospetto del principe delle milizie celesti. Era al corrente però di una diminuzione dei flussi dei devoti verso quel luogo a causa dell’emigrazione verso le Americhe. 

Il viaggio durò tre ore e ad accoglierli ci fu un “freddo pungente”, malgrado la stagione primaverile. Su consiglio del vetturino, lo scrittore si diresse subito verso la Grotta, dove trovò una temperatura favorevole. Lì scorse numerosi fedeli, sebbene la festività dell’8 maggio fosse passata, i quali agli occhi dell’Inglese avevano “un aspetto pittorescamente pagano, negli indumenti sudici e cenciosi, con bordoni sormontati da rami di pino e con la bisaccia”. Scorse, inoltre, altri credenti che battevano degli anelli metallici sulle porte di bronzo, per attirare lo sguardo divino su di essi, e poter fare delle suppliche. La porta, raffigurante varie apparizioni di angeli, presentava un’iscrizione: «Prego e imploro i preti di San Michele di pulire questi cancelli una volta l’anno come ho ora mostrato loro, affinché abbiano sempre essere lindi e lucenti». 

Adoration dans la Grotte de Saint Michel a Gargano, 1838 – Achille Vianelli (1803-1894)Foto: Vincent – Napoli, 13 giugno 2009 – Catalogo 25

Proseguì in direzione della Grotta, scendendo la scalinata tra “straccioni devoti e maleodoranti”, sino ad arrivare nella dimora angelica, illuminata da candele e piena di pellegrini inginocchiati, anch’essi “con candele in mano, dondolandosi estatici e biascicando e salmodiando. Una scena veramente irreale”. Provò una certa inquietudine per il fanatismo religioso al quale ebbe modo di assistere, tanto da esprimere un’amara riflessione: “Date loro il nuovo Messia, e tutta la nostra arte e le nostre conoscenze faticosamente accumulate, tutto ciò che riconcilia l’uomo civile con l’esistenza terrena, viene buttato ai quattro venti”. Uscendo, si recò presso il “Castello del Gigante” dove notò, inciso su pietra, 1491, l’anno durante il quale erano iniziati i nuovi lavori della fortezza. Sottolineò anche l’assurda regola del governo italiano relativa alla numerazione civica, che non contrassegnava solamente le case, ma anche castelli, mura e antichi ruderi. Il fatto divertì molto lo scrittore che ironizzò su questa scoperta. Sempre dall’alto della città garganica, poté scorgere il lago Salso (detto “Stagno”), dove “il Candelaro dimentica le sue acque mefitiche”, che “brillava di una luce decisa, come un lenzuolo di piombo lucidato”. Ma a metà giornata già era disgustato “dall’angelica metropoli”. 

Mentre passeggiava, da uno scantinato udì provenire delle “sciolte vociferazioni in inglese e in italiano”. Scendendo, trovò degli emigranti dediti a bere e a giocare a carte. Questi gli offrirono da bere un po’ di vino e nei loro discorsi facevano trasparire che «solo chi è maledettamente stupido rimane in questo paese». Risalite le scale, ritrovò il vetturino con il quale si diresse verso Manfredonia.

“Culto cavernicolo”, così Douglas appellò quello micaelico, e così titolò il 4° capitolo del suo viaggio. In esso approfondì maggiormente l’esperienza avuta a Monte S. Angelo. Parlò dei preti che vendevano frammenti della “Pietra di S. Michele” proprio vicino l’altare. Il commercio delle pietre sacre aveva avuto inizio nel 1656, durante la grave peste che colpì il Regno di Napoli. In quel tempo l’arcivescovo sipontino Giovanni Alfonso Puccinelli, patrizio di origine lucchese, al fine di proteggere gli abitanti della sua diocesi, raccomandò loro di munirsi di frammenti di pietra, che, portata con devozione, sarebbe stata in grado di proteggerli dalla peste. 

L’autore si soffermò sulla descrizione delle varie figure rappresentanti l’Arcangelo concludendo che “ogni traccia di divinità e di forza virile ne è stata spremuta. Così giovane e di bellezza tanto terrena, rassomiglia, piuttosto, a un bel ragazzetto che si è agghindato, per giuocare, con una spada, e un elmo infantili – viene voglia quasi di divertircisi insieme. Questo non è un guerriero!”. Tutto questo “rammollimento” e questa “svirilizzazione”, secondo l’autore, andava “di pari passo con il crescente benessere sociale”, in quanto la “divinità riflette i propri creatori umani e il loro ambiente”. 

Infine, confrontandoli coi contadini inglesi, con durezza disse dei montanari che “la loro è una vita di miseria avviliente e rivoltante. Non hanno giuochi o sport, non hanno corse di cavalli, club, mostre di bestiame, caccia alla volpe, politica, caccia ai topi, o una di quelle tante gioie che rendono diversa la vita dei nostri contadini. Non sono sfiorati da alcun tocco di umanità, […]; non leggono giornali o libri, […]. La loro esistenza è quasi animalesca nella sua vacuità […]. Per quattro mesi l’anno sono stivati in tane umide che non si possono definire stanze, dove un inglese riterrebbe disonorante tenere un cane – stivati in uno squallore incredibile per chi non lo vede; […]. Le visite all’arcangelo […] sono la loro unica forma di divertimento”. 

Sulla via del ritorno dal viaggio a Monte decise di recarsi a Siponto, “tanto antica che si dice fosse stata fondata da quel leggendario Diomede”, narrandone le origini sulla scorta di quanto scritto da Pompeo Sarnelli. Ma lamentò che di quella antichità non era rimasto nulla, poiché Manfredonia era stata costruita con le pietre dell’antica Siponto. Era sopravvissuta solo “una chiesa famosa” del secolo XI, “nello stile pisano, con colonne di marmo lavorate e appoggiate con ornamenti romboidali a leoni, e altre eccellenti lavorazioni nella pietra che rallegrano l’occhio”. Osservò anche l’esistenza della “Madonna bizantina, dipinta su legno da San Luca”. E fotografò la triste situazione di quello che, ai giorni nostri, è diventato il parco archeologico: “Di antichità pagane vi sono, sparsi qua e là, pochi capitelli, e così pure colonne di granito nella strana, antica cripta. Un pilastro se ne sta tutto abbandonato in un campo e, vicinissimi alla chiesa, ve ne sono altri due, in piedi, il più grande di cipollino, abbellito da una patina di lichene dorato; una testa di pozzo di marmo, […] si trova sepolta nell’erba lussureggiante. La pianura su cui sorgeva la grande città di Sipus è ora coperta di aspra vegetazione. Il mare si è ritratto dalla sua antica spiaggia, e bestiame semi-inselvatichito pascola sul luogo di questi antichi moli e palazzi padronali. Non resta una pietra. La malaria e la desolazione regnano supreme”.

Basilica di Santa Maria Maggiore di SipontoDisegno di L.J. Desprez, inciso da P.G. Berthault

Concluse in dolcezza, rimarcando che Siponto era “un luogo profondamente malinconico. E tuttavia fui contento di quella rapida visione. Avrò ricordi cari e duraturi di quel santuario – il travertino della sua struttura elaboratamente scolpito, che brilla di un colore fulvo aranciato nel tramonto; e della pianura abbandonata, più oltre, piena di visioni fantomatiche del passato”.

In quanto a Manfredonia, affermò, infine, che era “un luogo piccolo e triste dove il vento di mezzogiorno geme e le montagne sono velate nelle brume”. Così terminò l’ultimo capitolo dedicato al territorio sipontino e garganico.

BIBLIOGRAFIA

DOUGLAS Norman, Vecchia Calabria, Giunti Marzocco, Firenze 1983